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Abbiamo
raccolto i due articoli pubblicati su Arte Navale del naufragio
in pieno Atlantico a 800 miglia da Boston del catamarano Stella
Cometa, vissuto e scritti dal diretto protagonista nonché
direttore della rivista: Riccardo Sassoli.
Prima
della cronaca del naufragio, l'editoriale pubblicato sul numero
di Gennaio 2012 dallo stesso protagonista con una serie di riflessioni
...
Si
conclude su questo numero il racconto del naufragio di cui sono
stato protagonista assieme a mio fratello. Ci tengo a ringraziare
subito le tantissime persone dalle quali abbiamo ricevuto dimostrazioni
di affetto. Non vedevano l'ora di leggere la seconda parte e, su
questo numero saranno accontentate. Ma c'è un aspetto, in
particolare, che vorrei trasmettere a chi naviga. Una cosa entrata
nel bagaglio delle mie esperienze (e sappiamo quanto è fondamentale
per l'apprendimento in mare vivere le situazioni sulla propria pelle):
l'assoluta importanza di prendere confidenza con i mezzi di soccorso
di bordo, prima e durante la navigazione. Può sembrare banale
e ovvio, ma non lo è. Non ci credete? Provate a simulare
un abbandono della vostra barca con gli occhi bendati. Immaginate
di trovarvi di notte in una situazione critica senza illuminazione.
Sapete prendere e attivare l'Epirb? Sapete prendere i razzi, la
o le borse di sopravvivenza e il gps portatile? Intendo non solo
se sapete come si fa, ma se sapete farlo in tempi utili e funzionali
all'emergenza?
Il satellitare è già contenuto nella borsa stagna
da appendere al collo? L'autogonfiabile è facilmente raggiungibile
e attivabile, o, invece, è infilato in fondo a qualche gavone
con sopra mille cime (e attrezzature varie), giusto per "non
dare fastidio" alla normale vita di bordo? Infine, il salvagente
da lanciare in caso di uomo a mare è perfettamente pronto
all'uso, e la boetta ha le pile cariche?
Lo scorso mese sono affondate il Liguria due imbarcazioni a motore.
Il mare era calmo e i Vigili del Fuoco e la Capitaneria di Porto
hanno potuto trarre in salvo, senza troppi problemi, le persone
a bordo. Ma non sempre succede così. Nei prossimi numeri
approfondiremo il tema dei soccorsi grazie al supporto di persone
esperte e di sopravvissuti a naufragi. Nel frattempo, cominciate
a leggere l'articolo a pag. 129; racconta di come la Royal Navy
perdeva i suoi vascelli. Un consiglio: soffermatevi anche sulle
prime 5 righe di pag. 133
Credetemi, succede proprio così.
Quando ti vedi arrivare addosso una bianca valanga d'acqua (sembra
proprio una valanga di neve), non hai tempo per agire. Devi aver
già preparato tutto e pensare solo a non farti prendere dal
panico. E non c'è bisogno di essere in Atlantico per trovare
frangenti pericolosi (vedi foto). Un'ultimissima cosa: quando vi
scade la validità della zattera di sicurezza, chiedete alla
ditta che la controlla di poter essere presenti quando azionano
la sagola di attivazione, così da dare una occhiata alla
consistenza e poi controllare cosa c'è all'interno. Fatto
ciò, lasciatela gonfia per 24 ore e poi
scriveteci
dandoci la vostra impressione!
|
Parte
prima:
yes...
here Daio Azalea we are arriving...
È
la storia, raccontata in prima persona, di un naufragio a lieto
fine. Un'avventura, in due puntate, iniziata nel mezzo dell'Oceano
Atlantico e finita a Venezia in Piazza San Marco. Emozioni e ricordi
si fondono, supportati da immagini drammatiche
adesso
ce la dobbiamo fare
tu prendi la sagola e legala subito alla zattera,
io cerco di prendere le cime.
Ah bene... questa volta in fondo hanno
già fatto le gasse così ce le mettiamo
come sicurezza attorno alle spalle...
ok, adesso la biscaglina arriva fin sotto il pelo dell'acqua
vado su prima io per non incrociare le cime
ma come si infila? Ah ecco
non dai piedi,
ma dalla testa
.che rinco
! Ok salgo
ci vediamo
su
!
Arrivare
a New York in barca era uno dei miei sogni. Tante volte avevo
percorso il ponte di Verrazzano immaginando un giorno di guardarlo
dal basso verso l'alto così da poter ascoltare il rumore
dei veicoli quasi fosse una musica di benvenuto. Andavo spesso
a fare un giro a Coney Island o a Long Beach e, mentre guardavo
l'oceano, pensavo come sarebbe stato l'arrivo dal mare nella baia
della Grande Mela. Osservavo le boe rosse e verdi fortemente inclinate
da una corrente capace di raggiungere i 4 nodi. L'occasione si
è presentata nel mio cinquantesimo anno quando ho deciso
di trascorrere molti mesi in navigazione
In
ottobre il trasferimento del catamarano da Formentera a Fuerteventura
e a dicembre, dopo una lunga e bellissima traversata atlantica
caratterizzata dal poco vento, l'arrivo in Martinica. Successivamente
ho trascorso molte settimane ai Carabi in compagnia di tanti amici.
Con me, durante la permanenza nel mese di Febbraio, e per quasi
35 giorni, mio figlio piccolo di quattro anni che ho così
potuto iniziare al piacere della vela, della pesca e del nuoto,
preparandolo ad apprezzare il mare a 360 gradi. Il primo aprile,
dopo un mese trascorso in Italia, torniamo in Martinica per salpare,
la destinazione è New York. 1800 miglia percorse assieme
all'amico Claudio compagno di centinaia di navigazioni in Mediterraneo
e anche lui desideroso di arrivare a New York dal mare; per lui
poi era proprio la prima volta in assoluto. Un lungo tratto di
mare dove la navigazione è piuttosto insidiosa, i venti
sono forti e ruotano spesso ed è facile trovarsi a dover
navigare in situazioni difficili. Così è stato anche
per noi e in un paio di occasioni abbiamo dovuto impegnarci non
poco per proseguire nella direzione voluta. Avevo previsto una
sosta alle Bermuda, se i venti ce lo avessero consentito, ma a
duecento miglia dall'arcipelago, il vento è girato deciso
ad est e quindi favorevole per la rotta verso N.Y.
L'ennesima
conferma che il mare decide per noi e così le Bermuda le
abbiamo lasciate perdere, ottima meta delle prossime navigazioni.
All'alba del 14 Aprile al termine di una notte caratterizzate
da un vento freddo e pungente arriviamo in vista dei grattacieli
già anticipati dalla nube di luce sopra la città.
Consulto le carte nautiche dettagliate e inizio a segnare la nostra
rotta, immaginando già di appenderla poi a qualche parete
a ricordo di questa esperienza così carica di emozioni.
Ed ecco la prima boa rossa da lasciare a destra, poi la prima
verde e così siamo nel canale. Iniziamo a distinguere il
mitico ponte di Verrazzano, ancora lontano ma sempre più
riconoscibile; è un piccolo trattino in un panorama illuminato
da un sole splendente, ma capace a fatica di scaldare l'aria.
La corrente è fortissima e si avanza a soli quattro nodi
effettivi. Proprio come me le ricordavo, tutte le boe sono inclinate
facendole sembrare il limite di un fiume in piena. Ed ecco il
passaggio sotto il ponte: siamo a testa in su per cogliere ogni
attimo di quel momento tanto atteso e immaginato mille volte.
Guardo Claudio, gli occhi sono lucidi e non solo per il vento
freddo. Un abbraccio e un: "questa è fatta
!
Quale sarà la prossima?" I rimorchiatori spingono
le grandi chiatte passandoci vicinissimi, poi qualche cargo, un
piccola petroliera, una grande nave da crociera
ed infine:
eccola lì
la grande Statue of Liberty illuminata
da un sole sempre più sfolgorante, con dietro il New Jersey.
A destra Manhattan e il suo skyline orfano delle Twin Tower. Claudio
è ammutolito, mi guarda e il suo viso esprime meglio di
mille parole un'emozione già indelebile. Poi l'arrivo all'ormeggio.
È al Chelsea Pier 58 a fianco di una campo da Golf metropolitano,
dove le centinai di palline vengono lanciate verso l'acqua dell'Hudson
e, urtando contro la rete protettiva, finiscono su un "green"
artificiale per essere raccolte da un mezzo meccanico. Passano
così due settimane indimenticabili in compagnia di mia
figlia Chiara e di tanti amici, con i quali ceniamo spesso a bordo,
stupendoci ogni volta di come sia bello essere qui in barca ammirando
l'Empire di fronte a noi. Andrea, Antonio, Matteo, Ferruccio,
Marco, Daniele e tanti altri amici mi fanno compagnia nell'attesa
della ripartenza per l'Europa, a volte aiutandomi anche a sistemare
la barca per la traversata.
Finalmente il grande giorno arriva e il primo maggio parto insieme
a mio fratello Guido, giunto dall'Italia appositamente, per la
navigazione di rientro. Le condizioni meteo sono buone e le previsioni
del centro Navimeteo, lo stesso che mi ha sempre seguito nelle
precedenti tre traversate, ci danno un possibile rinforzo fino
a 25 nodi da Ovest. Decidiamo di percorrere una rotta diretta
verso le Azzorre avvicinandoci quindi molto al Maine e alla Nuova
Scozia in modo da avere acqua a sufficienza per poter "scendere"
a seguito di eventuali e probabili rinforzi da Nord, Nord-Ovest,
tipici di questa stagione. Una rotta "alta" dove la
temperatura è abbastanza bassa e la nebbia è spesso
presente. Procediamo bene per diversi giorni a volte aiutandoci
con un po' di motore quando il vento cala specialmente nelle ore
notturne.
L'8 maggio il vento inizia a girare a est rinforzando e le previsioni
ci confermano la permanenza di questi forti venti per molti giorni.
Non ci perdiamo d'animo e proseguiamo a bolinare il più
possibile. I salti dei forti venti sono continui, ma sempre dai
quadranti orientali. C'è poco da fare purtroppo, e a denti
stretti procediamo riducendo le vele al massimo davanti a un vento
che spesso sale fino a 35 nodi. La mattina del giorno 10 è
un vero disastro: pioggia e vento spazzano la coperta, è
impossibile andare per rotta e cerchiamo di resistere mantenendo
la posizione. Incontriamo un cargo con il quale confrontiamo i
bollettini e purtroppo, anche da parte loro, ci arriva la conferma
di una situazione meteo assolutamente anomala per questo periodo
dell'anno, con due depressioni vicine a creare una barriera di
venti da est. Dalla Nuova Scozia fino alle Bermuda il vento viene
dalla stessa direzione. Verso mezzogiorno passiamo da 25 a 40
nodi. Riduciamo la vela prendendo anche la terza mano. Alcune
onde iniziano a frangere e ne stimiamo l'altezza in cinque, sei
metri. A un certo punto un forte boato, i vetri della plancia
sono inondanti da un torrente di acqua. Sentiamo sopra uno schianto
seguito da forti vibrazioni.
Capiamo subito: la randa ha ceduto sotto il peso del frangente
che l'ha inondata mentre ci scavalcava completamente. Usciamo
di corsa e vediamo i brandelli di vela sferzati dalle raffiche.
Un'occhiata all'anemometro: segna 45 nodi. Non è facile
recuperare la randa, perchè adesso, oltre al vento e alle
onde c'è anche la pioggia. Dopo una mezz'ora riusciamo
a fissarla bene al boma e possiamo così rientrare in plancia,
ad attenderci c'è il suono dell'allarme della pompa di
sentina automatica di dritta. Sollevo il pagliolo e mi accorgo
che c'è acqua ed è già molta. Cerchiamo di
individuare la falla, apro la cabina di poppa e vedo una grande
apertura nel vetro laterale fisso che ha ceduto facendo entrare
così acqua in quantità. Ci guardiamo in faccia preoccupati
mentre tamponiamo la falla con i cuscini e con i paglioli incastrandoli
in modo da rallentare il flusso.
Chiamiamo
con il satellitare Navimeteo dove i ragazzi sono da giorni sempre
in contatto continuo con noi assistendoci anche moralmente. Gianfranco
ascolta il nostro racconto e quando gli comunico che vorremmo
lanciare l'SOS. Sento la voce cambiare, si fa tesa e determinata,
ma ci trasmette tranquillità e sicurezza. "Ok voi
attivate l'Epirb, io parlo con la Capitaneria di Porto e ci aggiorniamo
fra poco". Gli ripeto la nostra posizione anche se la conoscono
bene avendola costantemente aggiornata sui loro schermi grazie
al sistema di monitoraggio costante da loro stessi realizzato.
Alzo la linguetta dell'Epirb e immediatamente va in trasmissione,
prendo in mano il microfono del VHF per lanciare il May Day. Mi
sorprendo della calma nella mia voce. Tante volte ho immaginato
e temuto questo momento, tante volte ho sperato non avvenisse
mai, tante volte ho letto come la calma è la cosa che ti
salva la vita
e così è stato, anche per noi.
Appena finito di ripetere il nostro nome seguito dalla posizione
rilascio il tasto di trasmissione andando in ascolto
. Una
voce risponde immediatamente: "Yes Stella Cometa
here
Daio Azalea please repeat your position". A bordo ci guardiamo
sgranando gli occhi per la sorpresa capendo subito, dalla chiarezza
del segnale nonostante le pessime condizioni meteo, che si tratta
di qualcuno molto vicino. Ci scambiamo le posizioni e le riportiamo
sul GPS verificando la distanza in sole 30 miglia. Passano i minuti
e l'operatore ci richiama facendoci parlare con il Comandante
con il quale decidiamo di far convergere le rotte. Confermo la
nostra capacità di manovra, sperando di poter essere io
ad accostare, il mare in queste condizioni estreme rende difficile,
soprattutto a loro, la manovra. Stimiamo di entrare in contatto
visivo entro due ore. Iniziamo quindi le procedure di abbandono,
non prima di aver riparlato con Navimeteo (con loro verifichiamo,
voce per voce, di aver preso ed indossato tutto il necessario),
con la Capitaneria di Porto di Chiavari e con il Centro di controllo
dei soccorsi di Boston, il quale non era ancora riuscito a comunicare
con noi. Lo informiamo di essere già in contatto con la
Daio Azalea e ci confermano trattarsi della nave a noi più
vicina. Cercano di tranquillizzarci, raccomandandoci di chiamarli
appena siamo a bordo così da poter terminare lo stato di
allerta degli aerei e delle navi presenti in quell'area. Passa
un'ora e l'acqua continua a salire, segno che le pompe non ce
la fanno a svuotare le sentine e che l'acqua entra ancora, forse
da qualche altra parte. Purtroppo con l'acqua così alta
è impossibile capire se ci sono altre falle. Ci concentriamo
quindi sul da farsi e prepariamo la zattera di emergenza dove
probabilmente dovremo salire. Indossiamo i salvagente, apriamo
il barilotto di sopravvivenza vi infiliamo dentro i razzi, il
Gps portatile, le carte nautiche, il giornale di bordo. Il telefono
satellitare però preferisco mettermelo al collo chiuso
nella sua busta impermeabile, così come nelle tasche infiliamo
le "preziosissime" e potenti torce a led. Prepariamo
un paio di borse con un po' di vestiti, i computer e qualche ricordo
della barca rendendoci conto, con un velo di tristezza, che non
la rivedremo mai più. Usciamo fuori perché ormai
il radar segna una distanza di sei miglia dal bersaglio e quindi
dovremmo iniziare a essere anche in contatto visivo. Eccola lì,
enorme, tutta illuminata per essere più visibile così
come ci aveva preannunciato il Comandante. Loro non ci vedono
ancora perché le onde sono veramente enormi, ma dopo poco
ci confermano di aver avvistato le nostre luci. L'acqua ha riempito
lo scafo di dritta e sta allagando la plancia, dobbiamo quindi
salire sulla zattera d'emergenza già aperta (sorprendendoci
non poco per la sua fragilità) e legata sottovento in modo
da proteggerla dagli spruzzi. Una volta a bordo taglio la cima
perché ormai la nave è a pochi centinaia di metri
da noi ed il catamarano può affondare da un momento all'altro.
Siamo sballottati da tutte le parti e iniziamo a parlare con la
nave grazie al VHF impermeabile e galleggiante. Ci avvertono:
stanno per sparare il cavo di recupero.
Lo vediamo benissimo perchè è collegato ad un razzo
e percorre un ampio arco nel cielo, finendo però troppo
lontano da noi. La nave è costretta quindi a rifare la
manovra allontanandosi un po'. La zattera continua ad imbarcare
acqua perché le creste delle onde si infrangono e spinte
dal vento entrano all'interno. Sentiamo un boato enorme e una
valanga di acqua bianca precipita su di noi ribaltando la zattera.
Vengo sbalzato fuori e sento l'acqua sopra di me, mi spinge sotto.
Poi il silenzio. Capisco di essere immerso completamente
il tempo si ferma trattengo il respiro e tocco con la mano il
salvagente sperando di sentirlo ancora gonfio. Lo è, anche
se una delle due sacche è uscita dall'elastico e si è
messa un po' di traverso. Aspetto che la spinta di galleggiamento
mi riporti in superficie. Passano lunghi e brevissimi secondi
e poi ecco di nuovo il rumore del vento e delle onde e la voce
di Guido che mi chiama. Mi giro, la zattera è vicina e
con poche bracciate riesco a risalire, mi accorgo con sorpresa
che il fondo è quasi tutto strappato. Guido mi conferma:
la massa d'acqua, irrompendo all'interno, ha lacerato la gomma.
Guardiamo verso la nave e chiedo con il VHF al Comandante di mettere
la sua scialuppa in acqua, ma non riesco a sentire la risposta,
perché il vento e il rumore sono troppo forti. Passano
altri venti minuti. Adesso la nave è di nuovo vicinissima
e con il suo lato sottovento ci crea una zona di calma. Sentiamo
le voci dei marinai, ci parlano in inglese, ci guardano con ansia
da un'altezza di 10 metri in cima ad una parete d'acciaio dalla
quale pende la biscaglina. Lanciano subito una sagola in fondo
alla quale c'è il pugno di scimmia e, purtroppo (o per
fortuna), mi colpisce in fronte lacerandomi la pelle, adesso un
liquido tiepido mi cola sugli occhi. Non devo essere un bello
spettacolo per Guido che mi guarda mentre mi lavo il sangue con
l'acqua di mare. Mi tocco la ferita per capire se è solo
una taglio in superficie o se invece ci sono problemi con l'osso
frontale. Premo dentro il dito e spingo lentamente temendo di
sentire del tenero
no
tutto a posto è veramente
solo un taglio. La nave è lì vicino e mi aggrappo
ad una cima provando ad issarmi, ma purtroppo è corta e
non riesco a mettere un piede sul gradino per cui ricado in acqua.
La Nave ha ancora troppo abbrivio e ci sfila davanti, prima tutta
la fiancata e poi la poppa, dall'alto ci illuminano con le torce,
ma capiscono che non c'è nulla da fare. Occorre un terzo
tentativo. Nel frattempo si è fatto buio, ma la nave è,
di conseguenza, ancora più luminosa e ci tranquillizza.
Mi rendo conto che ci stanno perdendo di vista perché le
onde, altissime, ci coprono e le loro torce non riescono più
a rimanere fisse su di noi mentre le nostre non sono abbastanza
potenti. Guardo Guido, anche lui ha in mano solo la piccola luce
stroboscopica, quella da tenere in tasca come sicurezza durante
i turni di notte. Penso un attimo, mi sembra impossibile di non
avere con me la mia "fedelissima" torcia a led azzurri
e bianchi, quella regalatami da Massimiliano col quale condivido
la passione per le torce. Ha già fatto due volte l'Atlantico
con me, è il mio orgoglio, in molti mi prendevano in giro
perché di notte non me ne separavo mai. Mi tasto la tasca
della cerata eh
eccola qui! Perfetto. Ne ruoto il manico
e subito si accende luminosissima. Adesso la punto verso gli uomini
sul cargo e inizio a lampeggiare. Ci individuano subito e rispondono
ai miei tre lampeggi con altri tre flash. Adesso sanno dove siamo,
punto la pila sul cappuccio riflettente della cerata di Guido,
in modo da far capir loro che siamo assieme. Fra un onda e l'altra
indirizzo il fascio di luce verso l'alto per fargli vedere sempre
la nostra posizione. La nave si sta di nuovo avvicinando, di più,
sempre di più, hanno dovuto fare un giro a 360°, ma
adesso la posizione è perfetta, l'abbrivio è minimo
e lo scarroccio la spinge su di noi. Penso a chi sta manovrando
quel gigante: non deve essere per niente facile. Ecco, adesso
leggo il nome della nave a prua: DAIO AZALEA. Caspita lo riesco
a leggere bene anche senza occhiali, vuol dire che siamo proprio
vicinissimi. Gli uomini sono tutti affacciati al parapetto, gridano,
si sbracciano, sono pronti a rilanciare la sagola. La biscaglina
è già in posizione e le cime arrivano fino all'acqua,
così sarà più facile salire. Parte il lancio
.
Parte
seconda:
quando
qualcuno salva la vita di un proprio
simile in mare, le loro anime restano
unite eternamente da un vincolo invisibile
ricevo questo sms da un carissimo amico
e non posso non sentire qualche cosa dentro.
Lo chiamo subito per sapere da dove
proviene e scopro che si tratta di una frase
presa dall'ultimo libro di Zafon Le luci di
Settembre. Mi sento chiamato in causa
.
Arrivo
in cima alla parete d'acciaio alta 10 metri, sento molte mani
afferrarmi. Vorrei scavalcare il parapetto ma non riesco più
a muovermi, mi sollevano di peso
Poi il pavimento di ferro.
Li guardo in faccia: sorridono, gridano, applaudono si abbracciano,
mi abbracciano. Torno subito verso il bordo e illumino Guido,
che è già a metà strada. La scaletta gli
è rimasta incastrata da qualche parte e, mentre lo sollevano,
vengono su anche tutti i gradini, ma non importa; sono tanti e
quell'aumento di peso non li ferma di certo. Poi afferrano anche
lui dalla cintura di sicurezza e lo tirano dentro. Lo guardo sorridendo,
ci abbracciamo... caspita, ce l'abbiamo fatta. Iniziamo a ringraziare
tutti, mentre a bordo si festeggia a suon di applausi: è
il modo per scaricare la tensione accumulata da ore. Ci avviamo
verso il cassero e ci viene incontro, nella penombra, una figura
con un giubbotto nero. Ci guarda, ci dà la mano e ci dice
con un grande sorriso: "Welcome on board
Welcome on
Daio Azalea". È il Comandante, lo abbracciamo tutti
bagnati
"Thank you, thank you", lo ripetiamo a
tutti mentre entriamo nella piccola infermeria, dopo esserci tolti
le cerate fradice nel corridoio. Vado subito verso lo specchio
e mi guardo il taglio in fronte, ho il timore che l'adrenalina
non mi faccia sentire un dolore più forte ma, per fortuna,
la ferita è davvero solo superficiale. Mi infilo sotto
la doccia per togliere il sale e un po'di sangue. Poi ci avvolgiamo
in una coperta calda e, quindi, indossiamo la tuta arancione di
bordo. Appena finito andiamo sul ponte di comando salendo cinque
piani di scale. Prendo con me il satellitare (lo avevo appeso
al collo all'interno della busta impermeabile) ed esco subito
sulla plancia esterna per avere il segnale pulito. Mi blocco un
attimo, guardo il mare, il vento è ancora fortissimo, non
si vede niente, giusto un po' di schiuma bianca fra onde altissime
che, però, si intuisce appena. Penso per un attimo a come
abbiano potuto manovrare la nave da 25 metri di altezza dall'acqua
e comprendo bene che il fascio di luce della nostra torcia era
fondamentale per poterci tenere sempre in vista. Non c'è
tempo da perdere, voglio subito chiamare Navimeteo per tranquillizzarli.
Gianfranco risponde subito con un grido di gioia
Nella sua
voce la tensione svanisce. Gli racconto brevemente come sono andate
le cose e lo sento ripetere tutto alle altre persone vicine a
lui. Confesso, mi sento quasi in colpa per avergli fatto passare
ore così difficili. Chiamo poi il centro di controllo Epirb
di Boston per avvertire anche loro. Li informo che il nostro Epirb
è probabilmente affondato, insieme alla borsa in cui l'avevo
messo, quando la zattera si è ribaltata
"Nessun
problema - dicono loro - adesso avvertiamo noi le navi perché
sta ancora trasmettendo
". Penso alla borsa mentre galleggia
e un brivido mi scorre lungo la schiena. Non ricordo il numero
di telefono di mia figlia Chiara a New York, così le mando
un sms via satellitare. Il messaggio però arriva tronco
e crea un po' di panico, ma una telefonata alla efficientissima
Cost Guard di New York li informa che tutto è a posto.
Di lì a un'ora riesco a trovare, un bigliettino con il
suo numero di telefono nel mio portafoglio che, con un gesto premonitore,
ho passato dalla borsa alla tasca della cerata quando ero già
sulla zattera di salvataggio. Le parlo, scherzo, cerco di tranquillizzarla
sulla ferita
spero di esserci riuscito, ma non ne sono così
sicuro. Scendiamo a mangiare, poi il Comandante ci richiama in
plancia perché da Roma la Guardia Costiera ci vuole parlare.
Saliamo di corsa. Al telefono si rallegrano per il lieto fine,
chiedono rassicurazioni sulle nostre condizioni di salute e ci
danno appuntamento per l'indomani. Il giorno dopo è tutto
un susseguirsi di chiamate. Noi cerchiamo di fare del nostro meglio
per tranquillizzare tutti: tutto bene, tutto bene, grazie a Dio
siamo sani e salvi!! Ora dovrei raccontarvi dei successivi quindici
giorni a bordo, ma sarebbe troppo lungo. Mi piace descriverli
come due settimane indimenticabili, cariche di sentimento umano,
di quello vero, di quello di uomini di mare che salvano altri
uomini di mare. Ci sentiamo diversi, ci sentiamo come rinati.
Quando salgo in plancia, nelle tante ore trascorse a bordo, guardo
il mare e provo tranquillità, penso a cosa ho sbagliato,
a cosa avrei dovuto fare, penso ai tanti libri ed esperienze di
naufragi lette e rilette. Adesso sono io a dovere e a poter raccontare
la mia. Mi sembra quasi un dovere, così da poter dare un
contributo affinché altri non si vengano a trovare nelle
stesse situazioni. Le giornate trascorrono a leggere libri in
inglese, a guardare DVD e a pensare
a pensare tanto. Le
serate tutti insieme, tra karaoke, pizze da preparare e paste
aglio e olio a mezzanotte. Si chiacchiera delle loro famiglie
nelle Filippine e della loro esperienza di marinai. A volte assistiamo
alle loro esercitazioni periodiche sulle procedure di emergenza
e, così, impariamo dove sono le bombole di ossigeno, le
tute ignifughe, le cinture di salvataggio. Guardiamo le prove
per salire sui mezzi di salvataggio per l'abbandono rapido della
nave.
Il
23 di Maggio arriviamo in Sicilia, a Pozzallo. La Guardia Costiera
ci viene a prelevare, a 5 miglia dalla costa (i fondali bassi
non permettono alla nave di avvicinarsi di più), assistita
da un potente rimorchiatore. È il Città di Augusta,
lungo 40 metri. Il vento soffia fino a 30 nodi con pioggia e visibilità
scarsissima, ci sembra di rivivere la situazione del naufragio,
anche se le onde sono molto più piccole. Ci vestiamo esattamente
con gli stessi indumenti con i quali siamo arrivati a bordo. Poi
indossiamo le cerate e il salvagente, poi le cime di sicurezza
e giù di nuovo, lungo la parete d'acciaio percorsa in senso
inverso la notte del 10 Maggio. Sono passati 14 giorni ma sembrano
poche ore. Sono momenti difficili, soprattutto quando, scende
Guido. La nave va al vento e il rimorchiatore si distacca dalla
fiancata.
Guido
è lì, appeso a tre metri
dall'acqua. Mi si chiude lo stomaco e temo una disgrazia all'ultimo
secondo, quasi fosse un film con un tragico finale. Poi gli scafi
si riavvicinano e sei braccia sono pronte ad afferralo per le
gambe per portarlo a bordo. Tiro un sospiro e insieme iniziamo
a guardare la Daio Azalea dal mare
caspita quanto è
grande. La ricordavamo enorme ed in effetti lo è. Iniziamo
ad agitare le braccia salutando quegli uomini che per due settimane
hanno vissuto
con noi una sorta di rinascita. Uomini che non dimenticheremo
mai, uomini che non ci dimenticheranno mai, uomini che forse,
non rivedremo mai. Forse
E
invece non è così
li rivedrò presto,
molto presto. Il 15 Luglio, mentre sono in ufficio, ricevo una
telefonata via satellite dalla nave. È il, per noi mitico,
comandante Ely Sinoy, che mi avverte di essere in direzione di
Malta, dove si fermeranno alcuni giorni per poi proseguire verso
Rovigno (per alleggerire il carico in modo da portare il pescaggio
a "soli" 10 metri) e quindi far rotta su Venezia per
scaricare le stive. Arrivo previsto attorno al 30 Luglio. Non
ci posso credere. Chiamo subito Guido per vedere se ci potrà
essere anche lui, ma purtroppo dovrà rimanere in Spagna
per lavoro. Peccato. Inizio ad organizzarmi per preparare i regali.
Per il Comandante trovo un antico cronometro di Marina (quelli
utilizzati per fare il punto nave con il sestante, un oggetto
indispensabile a bordo e custodito gelosamente dal Comandante),
sul quale faccio apporre una targhetta con la latitudine e la
longitudine del punto dove ci hanno recuperati e la frase: "Many
thanks, we will remeber all of you forever. From Guido and Riccardo".
Per ogni membro dell'equipaggio, invece, preparo un libro sulla
storia dell'Amerigo Vespucci sulla cui copertina è inciso
in una targa in ottone: "Non chi comincia ma quel che persevera"
(frase di Leonardo Da Vinci, diventata dal dopoguerra il motto
della nave). Chi va per mare sa bene quanto sia importante il
suo significato. Tutto è pronto e finalmente il 30 Luglio
la nave attracca nel porto commerciale di Marghera. La raggiungo
verso le sei di sera dopo un lunghissimo viaggio (in pieno esodo
estivo) da Civitavecchia. Anche l'ingresso nei porti commerciali
non è così semplice. Nei giorni precedenti, avevo
chiesto i permessi all'autorità portuale ed alla Guardia
di Finanza tramite l'agenzia marittima e, devo dire francamente,
che quando comunicavo il motivo della visita, tutte le procedure
venivamo fatte al volo. Chiunque si rendeva ben conto dell'importanza
e della straordinarietà della visita a bordo. Arrivo al
varco verso le 17, presento i documenti e mi spiegano dove andare.
È una lunghissima gimcana in mezzo ai binari ferroviari,
a merce alla rinfusa e ai container, poi, dietro ad un grande
silos
eccola lì, enorme, attraccata alla banchina
sembra, se possibile, ancora più grande. Un'emozione forte
mi prende allo stomaco. I "ragazzi" sono già
lì sul ponte di poppa, che si sbracciano al mio colpo di
clacson. Fermo la macchina e salgo di corsa lungo la fiancata,
questa volta c'è la lunga scala inclinata, (davvero molto
lunga
).
Arrivo
a bordo e iniziamo ad abbracciarci. Vedo di nuovo i loro volti
dove leggo felicità e spero che anche il mio trasmetta
la stessa gioia. In sala mensa il Comandante raduna tutti gli
uomini. Sono di nuovo abbracci, sorrisi, strette di mano. Parlano
tutti insieme e vorrei rispondere ad ognuno contemporaneamente.
Chiamiamo Guido al telefono, in modo da averlo almeno virtualmente
vicino a noi.
Il Comandante prende la parola raccontando, a nome di tutti, quanto
quell'esperienza li abbia segnati positivamente.
Poi
tocca a me. L'emozione è tanta, ma riesco a nasconderla
con un sorriso. Consegno l'orologio al Comandante, fra gli applausi
di tutti, e poi, uno a uno, tutti i libri del Vespucci, non prima
di aver spiegato l'importanza di quella nave simbolo della Marineria
italiana e definita da tutti "la nave più bella del
mondo", aggiungendo: "Da tutti ma non da Guido e me,
perché per noi la nave più bella del mondo è
la Daio Azalea!". I festeggiamenti non sono ancora finiti.
Sono le 19 e immagino di cenare a bordo, ma scopro che il Comandante,
il Primo Ufficiale e il Direttore di Macchina sono liberi per
cena perché la nave sta ancora scaricando. "Fantastico!
Allora possiamo andare a cenare a Venezia!". Per loro sarebbe
la prima volta e non posso certo mancare di essere io il loro
cicerone. I tempi sono stretti: alle 22 il porto chiude e dobbiamo
avere la certezza di essere di rientro a quell'ora. Mi dò
subito da fare e chiamo un amico taxista veneziano e anche lui,
venendo a sapere di che cosa si tratta, organizza al volo di venirci
a prendere al Tronchetto, facendoci lasciare la macchina nel suo
parcheggio a pochi metri dall'imbarcadero. Per la cena vorrei
portarli in una osteria tipica. Anche qui tutto va magicamente
a posto telefonando ad un amico, veneziano di adozione, ex Comandante
del Vespucci; la stessa persona ritratta in alcune foto del libro
appena consegnato. Anche lui è a cena in un posto tipico
e ci prenota subito il tavolo vicino a lui. Saliamo a bordo e
chiedo, ovviamente, di fare il Canal Grande f ino a San Marco.
Sono f elicissimo. Loro iniziano a scattare foto sgranando gli
occhi e meravigliandosi di tutto. Gli racconto dei vari palazzi
ma loro sembrano non ascoltare, sono talmente rapiti dallo spettacolo!
Penso
a dove è iniziato tutto questo, a quella notte quando li
abbiamo abbracciati per la prima volta, penso alla nave in avvicinamento
con tutte le luci accese, penso alle onde, alla schiuma, alla
torcia
incredibile ci siamo conosciuti in mezzo all'atlantico
e adesso siamo insieme in un taxi sul canal Grande. Se questa
storia la usassero come trama per un film nessuno ci crederebbe.
Ed eccola lì finalmente
Piazza San Marco. Scendiamo
e li trascino letteralmente verso la Basilica perché il
tempo stringe ed è lì che li voglio immortalare,
tutti e tre assieme. Poi a cena parliamo di tutto ma spesso il
discorso torna a quei giorni indimenticabili; mi raccontano del
momento in cui hanno captato il nostro SOS di come cercavano di
accelerare al massimo forzando il motore (si la Daio Azalea ne
ha uno solo e non ha i "thruster"). A bruciapelo domando
al Comandante una cosa che non ero mai riuscito a chiedergli:
"Ely ma perché quella sera non avete messo in mare
la vostra unità di soccorso?" mi fissa un attimo e
mi risponde: " E'stata una delle decisioni più difficili
da prendere, ma non potevo proprio correre il rischio di avere
altre due persone in pericolo di vita
!"
Lo guardo ma non riesco a parlare, poi deglutisco e con uno sforzo
mi esce un sussurro: "grazie
grazie di tutto".
Me ne rendo conto: questo ricordò legherà per sempre
i nostri cuori.
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